martedì, ottobre 01, 2013

Dove c'è Barilla, c'è casa.

Quello che un retrivo conservatore come me può domandare al mondo che cambia, prima beninteso di esiliarsi da solo dal peraltro civile confronto democratico, è: l'evoluzione della famiglia è una prospettiva aperta o no?
E' necessario chiarire questo, perché molti conservatori come me sarebbero felicissimi di anelare al futuro, se ne potessero vedere, almeno, uno squarcio tra le nubi. E allora, domando e dico: qualcuno ha qualcosa da obiettare acchè si definisca famiglia anche un insieme di tre persone che si amano e che convivono? E dieci persone, se si vogliono bene e accudiscono i figli avuti in comune? E diecimila? Un miliardo? Sei miliardi e rotti?
L'espediente retorico della reconductio ad absurdum non è una trovata satirica, come si sa, ma è un sistema per semplificare le cose e ricondurle ai loro principi dominanti. Il principio dominante che nessuno, credo, oserà discutere è il seguente: esiste un punto preciso, opinabile quanto si vuole, oltre il quale il guazzabuglio sentimentale, onirico e sensuale tra esseri umani, seppure si può legittimamente ritenere di non ostacolare, non si può certamente più tutelare con le garanzie dell'istituto familiare. Certo, questo accade per mille ragioni, politiche, culturali, sociali, economiche. Ma tant'è.
Ora, si sposti in qualunque posto tale limite, più dietro o più avanti, ma si apprezzi l'invincibilità di un fatto. Il discrimine tra ciò che è famiglia e ciò che non lo è sarà sempre, inevitabilmente, di tipo culturale, e pertanto opinabile e parziale. Non c'è nulla di oggettivo nel dire che un certo aggregato umano è una famiglia e un talaltro no.
A meno di non ritenere, e questo risolverebbe tutto, che, stante la maggiore considerazione postmoderna per l'etica personale, quasi totalizzante e oramai religiosa, l'etica del "ciò che voglio fare si può fare se non danneggia gli altri", l'istituto della famiglia, e l'idea stessa che un rapporto tra persone debba essere validato dalle leggi vigenti, è del tutto superata.
Ma a parte la grande contraddizione in termini del fondamento stesso dell'etica personale (basta pensare: chi decide "cosa" danneggia gli altri e cosa no, e quindi va tollerato? e rispondersi: non certo il singolo, ma inevitabilmente gli altri, con l'ordine delle leggi e della morale), resta un dubbio: come mai nessuno, a sinistra intendo, non lo dice forte e chiaro? Si dica, santiddio (chiedo scusa agli atei): "la famiglia è superata, tenetevi la vostre rate trentennali, la 600 e il divano sporco di bambini, e lasciateci la gioiosa libertà dell'orgia perenne".
E difatti era questo il manifesto dell'avanguardia gay, tanti anni fa, quando essere definito "uranista" non faceva fare scatti di carriera, ma era una scelta di vita pericolosa e realmente discriminata.
Poi i libertini hanno smesso l'abito avanguardista e scanzonato per vestire, all'alba del terzo millennio, la tonaca della predica perenne, della predica obbligatoria. Da antagonisti del modello familiare ne sono divenuti aspiranti, improbabili, esegeti, e da nemici del moralismo si sono fatti alfieri di una nuova morale bellicosa, sbracata e priva di obiettivi. Dinanzi alla critica dei figli, che domanderanno loro perché non ci si può sposare tra venti persone, o perché non ci si può sposare con la propria comitiva di amici, con un'entità incorporea o con un oggetto amato, avranno due strade: o ammetteranno che ciò che desideravano in questi anni era un'altra cosa (e non gliela poteva dare il parlamento) e quindi che hanno sbagliato, o li metteranno tutti al rogo, come dei moralisti qualunque.

Non ci sono più i froci di una volta.

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