lunedì, dicembre 08, 2008

Fame.

Gli immigrati fanno lavori che gli italiani non fanno più. Proprio gli Italiani quei lavori non li fanno.
A costo di grattarsi la pancia da mattina a sera, il grasso cittadino tricolore non ne vuole sapere di spazzare le strade o di stendere pizze o di raccogliere pomodori. "Macchè - dice, con la bocca sozza di sugo - scherziamo? Io, un benestante figlio di cotanta patria?".
E difatti il denaro qui da noi non manca: si esce dalle università e già bisogna dribblare le offerte di lavoro, si ereditano dai padri fiorenti attività artigianali, centinaia di migliaia di piccole botteghe sulle quali non tramonta mai il sole, ed anche la più piccola fabbrichetta non teme i rovesci del mercato.
E poi, per chi non eredita, quale maggior facilità ad aprire lui stesso una ditta, o ad inaugurare un impiego in fabbrica pieno di promesse? Non c'è che da scegliere; il figlio dello spazzino diventa avvocato, il barbone vince la schedina, la brutta trova marito.
E poi che stato, che nazione l'Italia! Ad una burocrazia disponibile e attenta si unisce una tassazione quantomai mite e personalizzata. Pare che lo stato ci sia sempre e non ci sia mai, a seconda della maggiore o minore sua utilità nella vita di tutti i giorni.
E' chiaro che quei lavori lì, a queste condizioni, non li voglia fare nessuno. Io proprio non capisco quale italiano ne avrebbe mai bisogno.

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